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TESTIMONIANZE DEGLI EX-CITTADINI AL CONVEGNO ORGANIZZATO IN CAMPIDOGLIO
18 Ottobre 2003
Abbiamo avuto, per gentile concessione della Segreteria dell'I.I.S.P.G.C., i testi (trascritti dallo "sbobinamento" della registrazione) degli interventi di alcuni "ex-cittadini" al Convegno svoltosi in Campidoglio il 18 ottobre 2003. Gli stessi sono raccolti, insieme ad altri interventi, negli "Atti del Convegno" pubblicati dall'Istituto Internazionale per lo Studio dei Problemi della Gioventù Contemporanea.
SILVESTRO TERZI (cittadino dal 29.10.1960 al 12.7.1965):
Gentili Signore e Signori, in qualità di Presidente nazionale dell’Associazione Internazionale degli Ex Cittadini della Città dei Ragazzi di Roma, è per me un onore e un privilegio porgervi il saluto più cordiale e sincero a nome mio personale, ma, soprattutto, a nome di circa duemila ex cittadini della Città dei Ragazzi i quali, sparsi in tutto il mondo, onorano con il loro comportamento Monsignore e la Sua opera grazie alla quale si sono formati come individui responsabili e come cittadini del mondo. Per Monsignore noi siamo stati, vuoi per particolari condizioni economiche o familiari, vuoi per il colore della pelle o per la diversa professione religiosa, forse per il destino di essere nati in paesi poco fortunati, nelle sempre più complesse società certamente i più indifesi e i più penalizzati dalle ingiustizie, i più colpiti da terribili e devastanti calamità naturali o peggio dalla miseria umana. Tutti noi siamo da sempre stati i Suoi prescelti. Al nostro Monsignore, nel riconoscergli le enormi capacità intellettuali, culturali, organizzative che hanno permesso al Suo progetto di diventare un modello pedagogico apprezzato in tutto il mondo, ancor più Gli riconosciamo – e per questo Gli siamo infinitamente grati – il sentimento, il calore che ha saputo dare ad ognuno di noi, sentimento che dovrebbe essere un diritto di ogni essere umano di cui nessuno dovrebbe essere privato, tanto meno i bambini. Noi tutti siamo stati privilegiati di far parte della Sua grande, stupenda e variegata famiglia, sia vivendo nello splendido ambiente da Lui a tal proposito creato, ma anche e soprattutto per l’immenso amore con cui ci ha accolti bambini, seguiti adolescenti, formati come uomini, padri di famiglia, nonché come cittadini. A ognuno di noi Egli ha dato la Sua instancabile opera, la cultura, la dignità e i valori profondi che rendono liberi gli uomini. Tutti i ragazzi sparsi oggi per il mondo da sempre hanno raccolto la Sua eredità e, coerenti al Suo insegnamento, si prodigano affinché i frutti da Lui seminati con tanto amore in tutta la Sua vita trovino in noi un terreno fertile per diffondere con i fatti e non solo con le parole i veri valori e l’amore che ci ha trasmesso a favore dei più deboli, dei più bisognosi e soprattutto dei più piccoli che sono i più indifesi. All’Istituzione, alle autorità preposte, nonché agli Istituti del settore, ci permettiamo di chiedere, di prodigarsi in ogni modo, così come facciamo noi, per far sì che l’ancora attuale e geniale idea di Monsignor Carroll–Abbing di preparare uomini e donne di domani per mezzo del sistema dell’Autogoverno che sta alla base del progetto pedagogico della nostra Città dei Ragazzi, con il rispetto dell’evoluzione normativa vigente, venga valorizzato, tutelato e salvaguardato proprio in virtù dei positivi risultati ottenuti in questi cinquant’anni di fattivo impegno del nostro caro Monsignore. Grazie per l’attenzione prestata e a tutti “buon lavoro”.
AMAN YIHDEGO (cittadino dal 11.9.84 al 2.10.94):
Buongiorno a tutti, sono Aman Yihdego, un ex cittadino. Per presentarmi meglio vorrei leggervi alcune righe che scrissi nel ’94, prima di uscire dalla Città dei Ragazzi per spiegarvi che cosa è stata per me la Città dei Ragazzi e, in breve, che cosa ho passato in quei momenti. La mia storia cominciò ad Asmara diciannove anni fa. Laggiù solo due anni, poi, rincorso dalla guerra: Addis Abeba, il Cairo, Alessandria d’Egitto, Bergamo, Livorno ed infine Roma. Alla Città dei Ragazzi sono arrivato che avevo solo nove anni. Eravamo in tanti, in un arcobaleno di pelli colorate. Insieme ritrovavamo il desiderio di vivere. Il tempo passava e, a poco a poco, i contorni diventavano nitidi, i dettagli risaltavano e la vita si riempiva di significati. Iniziai a frequentare il Laboratorio d’Informatica “Paolina Nardi”. All’inizio fu il mondo della "tartaruga" ad occupare il mio tempo, poi gli studi di Informatica ed i linguaggi di programmazione. L’Africa era troppo lontana, anche d’estate e così ecco i primi stage lavorativi all’IBM. Roma, Milano, Napoli…Una sfida continua tra l’uomo e la macchina. Il tempo è passato, ho imparato a camminare ed allora sono uscito dalla Città dei Ragazzi per andare a cercare la mia strada. L’Africa è in un angolo del mio cuore. Nel 1998 sono rientrato alla Città dei Ragazzi come Tecnico Informatico, questa volta da “adulto”, insieme ai ragazzi più giovani. Mi domandavo spesso se sarei stato capace di lavorare con i ragazzi e che tipo di rapporto sarei stato capace di instaurare con loro. (Scusate l'emozione: è forte!) Mi ricordo il primo giorno in cui ho cominciato a lavorare alla Città dei Ragazzi. Sono arrivato alla Città verso le 10, ho attraversato il solito cancello che avevo visto per tanti anni. Ai primi passi nel viale mi sentivo quasi incollato al terreno e mentre camminavo mi chiedevo se avevo fatto bene a tornare lì, dove ero stato tra amici, dove tanto avevo ricevuto, ma anche dove avevo nascosto tante lacrime! Mentre camminavo, ad un tratto incontrai il sorriso di Monsignore che, con la solita sapiente ironia, che Lo rendeva unico, mi salutò. In quel momento tutti i miei dubbi e le mie paure sono scomparsi e mi sono sentito improvvisamente a casa. Vi racconto con difficoltà questi miei pensieri e vi dirò che in questi giorni ho pensato molto a questi giorni perché è la prima volta che faccio qualcosa del genere e sto “morendo di paura”, comunque la Città dei Ragazzi e Monsignore sono stati la mia casa, i miei affetti e quello che io oggi sono, lo devo a loro. Al sorriso di Monsignore, pronto a leggere negli occhi di ognuno di noi le tristezze, le nostalgie, la rabbia e il dolore e capace di farle sparire con una parola, con una carezza, con uno sguardo che ti diceva: “Caro, sono qui con te, tu non sei solo…” Viveva con noi, non perché abitasse a poca distanza dalle nostre Ville, viveva con noi perché condivideva la Sua giornata con ognuno di noi. Come facesse a trovare per tutti la parola giusta io non lo so, però Lui lo faceva. E’ per questo che oggi voglio raccontarvi frammenti di vita con Lui perché possiate capire quanto è stato grande, quanto ha dato nel corso della Sua vita. Una vita veramente dedicata agli altri, dove gli altri non erano sempre in grado di capire, perché troppo giovani o perché troppo arrabbiati. Ma Lui non si è mai arreso, ha sempre capito, ha avuto pazienza con tutti, ha dosato con saggezza sorrisi e rimproveri e ci ha aiutati a scoprire quello che c’era di buono in ognuno di noi. (Ah, finito!)
P. PAOLO MARINO, T.O.R. (cittadino dal 28.9.74 al 1.9.81):
Sono entrato nella Città dei Ragazzi a undici anni, nel 1974, con mio fratello, eravamo tutti e due lì. Vorrei inquadrare il mio intervento nella Liturgia di oggi che è la festa di San Luca, l’Evangelista della Misericordia. Non a caso è stato per me oggi uno spunto per questa testimonianza. Monsignore è stato mosso da questo amore per il Signore e innanzitutto del Signore per Lui. La cosa che mi preme di dire è questa: oggi, riflettendo un po’ su questa persona è stato detto, sottolineato, ben evidenziato; un uomo giovanissimo che era a Roma, che aveva avanti a sé una carriera facile con tutti gli aiuti e i doni che il Signore Gli aveva fatto ha cambiato rotta. Sono contento, appunto… su queste cose ho riflettuto in questi giorni e le ho ritrovate, le sento vere, confermate. Penso che Monsignore sia stato segnato da due figure importanti nella sua vita, cercando di rispondere al Signore: da San Francesco e da Madre Teresa. La figura di quest’uomo piccolo, e come Lui Madre Teresa… A me piace questa immagine: vedere Monsignore, questo piccolo uomo come Francesco d’Assisi e Madre Teresa, però innamorato di Gesù Cristo. Quest’amore che Lui ha sperimentato era concreto, perché vissuto con chi il Signore Gli aveva fatto incontrare, concretamente. Quello che mi è piaciuto di questa mattina è questo aspetto del modo in cui Monsignore ci ha educati, questa scommessa di farci esercitare, crescere nella responsabilità e nella libertà. Questo ha segnato molto la mia vita. Io sono uno di quei ragazzi che ha avuto molti problemi nella sua vita familiare, nella sua storia e che ha scoperto in Quest’Uomo questo innamoramento per il Signore che Gli diceva che in ognuno che incontrava c’era una dignità grande e questo a noi l’ha fatto respirare. Io penso a me, ai meccanismi psicologici che ci portavano a chiuderci nei nostri problemi, nelle nostre croci, nelle nostre sofferenze e Monsignore cercava di tirar fuori quegli aspetti positivi che c’erano in ciascuno di noi. Questo lo faceva con tutti. E’ un insegnamento grande che ci ha dato: il fatto di avere un rispetto profondo per tutti, di trarre il meglio da qualsiasi persona incontrasse, dalle persone che avevano sofferenze alle persone che stavano bene, dalle persone ricche alle persone povere. Non ha mai avuto, questo vedo che c’e l’ha trasmesso, un pregiudizio su nessuno, ma cercava di trarre il bene da tutte le persone in più nel rispetto del cammino di fede anche di chi magari non credeva. Riceveva aiuto da tanta gente che percorreva un cammino più, forse, umano, ma che aveva buona volontà, come dicevano i Padri della Chiesa, un seme. C’era un seme in ciascuno di loro che Lui coltivava, permettendo loro di fare del bene, di collaborare. Questo penso: ha portato molti di noi a uscire un po’ da noi stessi, a essere responsabili, a verificare la nostra libertà. Volevo semplicemente raccontare due episodi, uno molto banale di per sé: dopo ce ne darà testimonianza anche Franco, dopo di me: stavamo a San Marino, era notte, era tardi – Monsignore qualcuno se lo portava con Lui, quelli magari che avevano delle difficoltà e che non avevano possibilità di andare a casa – stavamo in un albergo. Alcuni di noi stavamo giocando a biliardo e Franco dormiva con Monsignore e Monsignore ci disse: “Che cosa fate? Che cosa possiamo fare?” “Ma niente, Monsignore. Noi andiamo a dormire.” Lui andò a dormire e Franco rimase un po’ ancora con noi e poi tornò a dormire. Il giorno dopo, da irlandese che non si fa scappare nulla, proprio questo io l’ho visto da come ci ha educati, in fondo, era “arrabbiato nero” e ci disse perché eravamo rimasti fino a tardi, perché Franco era arrivato molto più tardi a dormire, semplicemente per dirci del rispetto anche per gli altri, anche perché noi volevamo un po’… sbarazzarci di Lui quella sera, probabilmente. Volevamo stare da soli. Però Lui ci ha messo di fronte a un fatto: la libertà e la chiarezza, nel rispetto degli altri. Un’altra cosa riguardo al fatto di uscire da noi stessi: Lui, spesso, alcuni di noi se li portava in giro per cose anche impegnative. E’ stato ricordato il terremoto dell’Irpinia. Io mi ricordo che mi portò con sé a vedere alcune cose. Ripensandoci ho constatato l’attenzione che aveva per noi, ma ci chiedeva di non rimanere chiusi in noi stessi, nei nostri problemi, anzi noi con le nostre realtà dovevamo imparare anche ad aprirci a chi ci stava intorno che soffriva come noi. Questo è stato per me veramente forte, grande. Per me la Città dei Ragazzi è stata una palestra di vita, il luogo dove esercitare e crescere nella libertà, nella responsabilità e nel rispetto degli altri. Non a caso non abbiamo mai avuto difficoltà di razzismo, grazie a Dio. Era innato in noi, eravamo di nazionalità, di colori diversi e Monsignore ce l’ha messo nel cuore che siamo persone amate da Dio fino in fondo e che tutti hanno una potenzialità da mettere a frutto. Questa è stata un po’ la mia esperienza. Voglio concludere semplicemente con una preghiera, quella proprio di oggi, è di San Luca che penso sia stata importante e che racchiude un po’ quello che Monsignore sentiva. Prima di questo volevo semplicemente dire che senz’altro la mia vocazione – sono un francescano – la devo molto a Lui che ha vissuto davvero da frate nel suo modo di essere. Monsignore è stato un uomo che aveva possibilità di vivere in modo più agiato, invece aveva una stanzetta in mezzo agli assistenti, come gli assistenti e gli educatori della Città dei Ragazzi e aveva delle scarpe che indossava da quarant’anni – sempre le stesse – a cui rimetteva la suola. Questo per me è stato importante anche per la mia vocazione. Concludo con la preghiera di oggi, di San Luca che penso racchiuda lo spirito di quello che Monsignore ha realizzato: "Signore Dio nostro che hai scelto San Luca per rivelare al mondo con la predicazione e gli scritti il mistero della tua predilezione per i poveri, fa’ che i Cristiani formino un cuor solo e un’anima sola e tutti i popoli vedano la Tua Salvezza". Questo ha voluto fare Monsignore: che tutti i popoli vedano la Salvezza del Signore. Grazie.
FRANCO RUGGERO (cittadino dal 29.9.71 al 1.7.80):
(Arriva anche la signora, anche se non voleva apparire)
Io sono Ruggero Franco, sono stato cittadino della Città dei Ragazzi di Roma e quindi ex cittadino adesso. Paola Fraschetti è mia moglie e siamo scultori. Io insegno all’Istituto d’Arte di Urbino. Ogni tanto ci ritorna la voglia, intanto di rincontrarci con gli ex cittadini, intanto di ritornare un po’ alla fonte dell’amore che abbiamo ricevuto, amore del quale oggi vorrei parlare. Ho scritto una riflessione sull’amore. (Cerco di imitare Monsignore, il Dottor Leccas è eccezionale in questo…) «E’ tutto qui, caro, tutto qui: l’amore!» mi diceva Monsignore, «amare è nella nostra natura. Non bisogna andare a cercare lontano chi ha bisogno del nostro amore. Basta guardarsi intorno, vicino a noi qualcuno ci chiede amore. Un gesto semplice, non eroico. Non aspettare il momento eroico per donarti, è un gesto velleitario. L’amore è quello di tutti i giorni, è una prova continua, è una gioia continua, nelle piccole cose. Qualche volta può capitare anche di ricevere degli elogi per aver dato. Pazienza. Lascia fare. L’elogio serve agli uomini, a volte serve a chi ti elogia. Purtroppo a volte è proprio l’elogio a renderci orgogliosi e ci spinge a dare di più, ma è quando ci rimettiamo nelle mani di Dio che l’amore è diverso. Ha un sapore e un profumo particolare, coinvolgente». Monsignore, che noi ragazzi chiamavamo “Er Monsi” insisteva molto sull’importanza di amare. Più di una volta Gli è stata fatta la domanda da amici, benefattori, giornalisti, studiosi e altro: «Ma chi gliel’ha fatto fare di lasciare la Segreteria di Stato della Santa Sede e dedicarsi a questi ragazzi?» Lui spesso rispondeva riportando quel passo del Vangelo dove Gesù dice: «Chi accoglie nel mio nome uno di questi bambini accoglie me; ma chi accoglie me, non accoglie me, ma Colui che mi ha mandato». Questa era la risposta anche per noi ragazzi quelle volte che con tanta impertinenza gli chiedevamo: «A Monsignò, ma chi te l’ha fatto fa’!» Monsignore ha vissuto alla Città dei Ragazzi di Roma e ha vissuto tanta parte della sua vita. Lì abitava, aveva l’ufficio e la stanza da letto. Viveva tra noi nei quali riconosceva i bambini di cui parla Gesù. Quando noi entravamo nel suo ufficio non bussavamo mai per non disturbarlo mentre lavorava. Giocavamo a carte, leggevamo i giornali, chiacchieravamo tra noi e sentivamo i dischi “a palla”, finché qualcuno tra i più grandi - e ce n’è stato uno più grande di me che ha fatto proprio questo - entrava in ufficio, abbassava il volume dello stereo e ci diceva: “Er Monsi sta lavorando!” Io sono cresciuto proprio lì, dove viveva Monsignor Carroll–Abbing, nella Città dei Ragazzi di Roma. Di quella Città sono stato Sindaco più volte sia nella comunità dei più giovani sia in quella dei più grandi. Anche in veste di Sindaco mi accadeva, talvolta, di reagire con rabbia a situazioni spiacevoli di varia natura, con l’opposizione, appunto. Spesso ne parlavo a Monsignore – e state tranquilli che non ne parlavo in modo tranquillo, con Monsignore era sempre un andargli a dire qualcosa di... – Talvolta a cena, quando si fermava davanti al mio tavolo nel ristorante cittadino e chiedeva: “C’è un posticino libero?” E...noi...lo creavamo il posto. Lui, a volte con calma, perché Monsignore in questo non era da meno, altre volte un po’ meno con calma, insisteva su questo punto: «Amare. Tutto ci pesa se non lo facciamo con amore. Oggi ti domandi chi te lo ha fatto fare a presentarti come candidato Sindaco. Domani ti chiederai: chi me lo ha fatto fare a fare il lavoro che faccio? Chi me lo ha fatto fare di sposarmi, di avere dei figli, di aiutare quell’amico? Chi me l’ha fatto fare? Se la risposta non è un autentico amore tutte le risposte da sole non ti saranno di grande aiuto: soldi, carriera, notorietà, orgoglio, dovere». A proposito dell’Autogoverno mi diceva: «Non c’è democrazia senza amore», intendendo che lo strumento non basta. Amare ti apre l’orizzonte, ti aiuta ad accettare l’altro, ad accettare le idee degli altri. Ti aiuta ad ammettere che, talvolta, le idee degli altri sono migliori delle tue. Tante volte abbiamo cercato intorno a noi manifestazioni concrete del sentimento dell’amore. Quale amore? Quello della mamma per i propri figli? E beh! E’ nella natura della mamma, generalmente, ma nella nostra Città c’era tra noi chi era stato abbandonato da piccolo anche dalla mamma. L’amore di un padre? Sì, generalmente i padri amano i loro figli, ma tra noi qualcuno ricorda solo la figura di un ubriaco, talvolta violento o...altro. Mamme e padri particolari, da amare, cioè Monsignore ce l’ha sempre detto di amarli comunque. «Amatevi come fratelli». Anche in questo caso non è scontato che tra fratelli corra il buon sentimento dell’amore e ne abbiamo anche testimonianze storiche. «Ama il prossimo tuo come te stesso». Quante volte Monsignore mi ha fatto notare quanti ragazzi fanno del male a se stessi e faticano a voler bene agli altri! Monsignore ci aiutava a cercare l’amore al di là degli stereotipi. Io ho guardato a Lui, a quanto ha fatto per ciascuno di noi e ho guardato ai Suoi collaboratori, alle famiglie che vivevano alla Città dei Ragazzi. Ho capito l’amore dai ragazzi più grandi nella Città dei Ragazzi ai quali Monsignore ricordava: «Voi siete la luce per questi picculi», perché non gli riusciva di dire “piccoli”. «Se non brillate voi loro non vedono, restano al buio e si perdono». Così abbiamo imparato l’importanza di voler bene a noi stessi e agli altri, a riconoscere la nostra dignità di figli di Dio, a rispettare la nostra importanza agli occhi del Padre. Arriva, infine, il giorno in cui si è felici di salutare tutti e di lasciare la Città dei Ragazzi. Io per ultimo salutai Monsignore, ci abbracciammo e gli dissi: “Grazie per tutto quello che hai fatto per me. Chissà se mai riuscirò a ricambiare?” E lui a me: «Andiamo, caro! Tu lo sai! Quello che ho fatto per te, quello che abbiamo fatto per te non prevede la presentazione del conto finale. Non c’è nessun conto da pagare. Allora, ci vediamo presto, ciao». Grazie, Monsignore. Grazie a Dio.
MAURO CARUSO (cittadino dal 28.9.74 al 11.7.79):
Buongiorno a tutti. Mi chiamo Mauro Caruso, ex cittadino, la carica che rivesto è stata già detta. Di Monsignore è stato detto tanto e anche molto poco per quanto si possa dire. Voglio partire dalla mia storia. Sono un italo–somalo, vengo dal Corno d’Africa, una regione ormai scordata da tutti, ma non da me, vivo quotidianamente la tragedia che ha uno stato che vive da tredici anni una guerra civile. E’ proprio da lì che trent’anni fa vengo rimpatriato con il titolo di “profugo”, perché figlio di un italiano e quando le rivoluzioni militari prendono possesso di un governo statalizzano tutto ciò che appartiene agli stranieri e vi garantisco che in quella tragedia io mi sono sentito fortunato, perché dopo un mese venivo ospitato alla Città dei Ragazzi. Voglio raccontarvi un piccolo aneddoto a me molto caro: la mia prima notte alla Città dei Ragazzi. Una camerata di oltre venti letti, venti ragazzi miei coetanei, ma non erano i miei amici, non era l’amico che avevo lasciato a Mogadiscio. Non avevo il calore della mia famiglia, quando in fondo al corridoio sento la voce di un adulto augurare la buonanotte a questi ragazzi e dare ad alcuni di loro dei baci, quelli che gli si avvicinavano. Come si è allontanato io ho chiesto ai miei compagni se fosse un loro parente o addirittura il padre di qualcuno; una risata globale, il mio imbarazzo, per fortuna il mio vicino di letto: “No! Ma quello è Monsignore, il fondatore della Città dei Ragazzi e di tante altre cose!” Tante altre cose non sapevo, ma della Città dei Ragazzi, quella persona esile, piccolina, ma con quell’animo, mi sono tranquillizzato...Ho detto: “Ho ritrovato un’altra famiglia”. Quello che non riesco a capire è che le nostre istituzioni abbiano in programma che fra non molti anni la Città dei Ragazzi e tante altre situazioni non ci debbano più essere; ma vogliamo prendere coscienza che finché ci saranno industrie belliche che creeranno guerre…Le guerre sono la distruzione, la miseria e successivamente l'immigrazione. I bambini, i ragazzi bisognosi... se non ci sono queste istituzioni, chi dà loro insegnamento affinché si inseriscano nella società, non da clandestini emarginati? Vi lascio con questa riflessione. Grazie per avermi ascoltato.